Oggi mi sono regalata una giornata di lavoro in vigna.
E’ tempo di potatura, i ragazzi lavoravano sotto le finestre di casa e nel vedere i tralci a terra ho iniziato a raccoglierli in fasci per poterli poi legare e conservare in un luogo asciutto come legna da ardere. “Federi’, vuoi vedere come si faceva una volta un vero pennicillo?” Mi chiede Pasquale mentre mi guarda affannarmi con il filo sintetico per legare i tralci. Conoscendolo, so per certo che queste domande nascondono occasioni di apprendimento della storia ischitana, e, come tali, vanno colte al volo.
Comincia un piccolo tuffo nel passato dove Pasquale sceglie accuratamente due o tre tralci lunghi e mi mostra come fare. “Questo una volta era il lavoro delle donne in vigna. Mentre raccoglievano i tralci da terra li sistemavano già in mano dal lato potato in modo da formare una base regolare, poi usavano i tralci lunghi per raccogliere e stringere i fasci.”
Guardo le mie unghie appena fresche di estetista e mi dico che no, non ho proprio nulla in comune con le donne di quel tempo. Decido comunque che almeno un pennicillo lo devo fare io. Da sola. Comincia quindi il mio lavoro di raccolta dei tralci potati tra i filari per poi ammucchiarli in un unico punto, dargli una forma il più possibile regolare e legarli.
Il lungo tralcio di vite che uso per legare sembra elastico e morbido ma ci vuole una buona dose di tecnica e destrezza per torcerlo senza spezzarlo e farci un nodo, tutto questo mentre faccio peso con un piede o un ginocchio per restringere la forma dell’intero fascio in una specie di colonna. Tutto questo mentre cerco di non spezzare le unghie fresche di estetista. Un tempo, mi viene detto, i pennicilli venivano poi tutti impilati a ridosso di un terrazzamento come frangivento.
Farne uno non mi basta. Riprovo e riprovo e, anche se un po’ arrangiati, non mi lamento del risultato ottenuto. Dopo un paio d’ore comincio a sentire la fatica sulle gambe per i continui piegamenti e non riesco a non pensare alla forza fisica delle donne di 60 e oltre anni fa, alla tempra che avevano per sostenere quotidianamente questo e i tanti altri lavori della terra. Non riesco a non pensare che per quelle donne la vita ruotava intorno a un pezzo di terra sotto un cielo che regala colori stupendi quanto climi spietati, tra il caldo torrido o il vento freddo come questa giornata. Tra terrazze ripide e palmenti dove pigiare l’uva.
E un focolare attorno al quale ci si riuniva in rassicuranti ritmi sempre uguali, dove non ci si doveva preoccupare di dividersi tra i mille impegni di figli, “che i bambini si crescono da soli”, come si dice qua. E dove nulla del cibo prodotto veniva buttato. Si viveva per e nella terra, e quello bastava.
Non posso non soffermarmi a pensare che parole come spreco alimentare, progresso, tecniche di vinificazione, sistemi di allevamento e relative potature per le cosiddette “produzioni di qualità” fossero per tutta quella generazione un linguaggio sconosciuto. Il passato come risorsa, il presente come trampolino verso un futuro che possa ancora insegnarci a rispettare la terra e i suoi frutti.
Il tempo. Questo continuo srotolarsi di persone, vita e azioni che si ripetono. Guardo i miei pennicilli imperfetti sono contenta di avere assaggiato quella fatica lontana e ringrazio l’immagine di quelle donne e di quelle madri nella terra.