Di Federica Predoni

Oggi mi sono regalata una giornata di lavoro in vigna.

E’ tempo di potatura, i ragazzi lavoravano sotto le finestre di casa e nel vedere i tralci  a terra ho iniziato a raccoglierli in fasci per poterli poi legare e conservare in un luogo asciutto come legna da ardere. “Federi’, vuoi vedere come si faceva una volta un vero pennicillo?” Mi chiede Pasquale mentre mi guarda affannarmi con il filo sintetico per legare i tralci. Conoscendolo, so per certo che queste domande nascondono occasioni di apprendimento della storia ischitana, e, come tali, vanno colte al volo.

cenatiempo-potature-1

Comincia un piccolo tuffo nel passato dove Pasquale sceglie accuratamente due o tre tralci lunghi e mi mostra come fare. “Questo una volta era il lavoro delle donne in vigna. Mentre raccoglievano i tralci da terra li sistemavano già in mano dal lato potato in modo da formare una base regolare, poi usavano i tralci lunghi per raccogliere e stringere i fasci.”

Guardo le mie unghie appena fresche di estetista e mi dico che no, non ho proprio nulla in comune con le donne di quel tempo. Decido comunque che almeno un pennicillo lo devo fare io. Da sola. Comincia quindi il mio lavoro di raccolta dei tralci potati tra i filari per poi ammucchiarli in un unico punto, dargli una forma il più possibile regolare e legarli.

Il lungo tralcio di vite che uso per legare sembra elastico e morbido ma ci vuole una buona dose di tecnica e destrezza per torcerlo senza spezzarlo e farci un nodo, tutto questo mentre faccio peso con un piede o un ginocchio per restringere la forma dell’intero fascio in una specie di colonna. Tutto questo mentre cerco di non spezzare le unghie fresche di estetista. Un tempo, mi viene detto, i pennicilli venivano poi tutti impilati a ridosso di un terrazzamento come frangivento.

cenatiempo-potature-2

Farne uno non mi basta. Riprovo e riprovo e, anche se un po’ arrangiati, non mi lamento del risultato ottenuto. Dopo un paio d’ore comincio a sentire la fatica sulle gambe per i continui piegamenti e non riesco a non pensare alla forza fisica delle donne di 60 e oltre anni fa, alla tempra che avevano per sostenere quotidianamente questo e i tanti altri lavori della terra. Non riesco a non pensare che per quelle donne la vita ruotava intorno a un pezzo di terra sotto un cielo che regala colori stupendi quanto climi spietati, tra il caldo torrido o il vento freddo come questa giornata.  Tra terrazze ripide e palmenti dove pigiare l’uva.

E un focolare attorno al quale ci si riuniva in rassicuranti ritmi sempre uguali, dove non ci si doveva preoccupare di dividersi tra i mille impegni di figli, “che i bambini si crescono da soli”, come si dice qua. E dove nulla del cibo prodotto veniva buttato. Si viveva per e nella terra, e quello bastava.

cenatiempo-potature-3

Non posso non soffermarmi a pensare che parole come spreco alimentare, progresso, tecniche di vinificazione, sistemi di allevamento e relative potature per le cosiddette “produzioni di qualità” fossero per tutta quella generazione un linguaggio sconosciuto. Il passato come risorsa, il presente come trampolino verso un futuro che possa ancora insegnarci a rispettare la terra e i suoi frutti.

Il tempo. Questo continuo srotolarsi di persone, vita e azioni che si ripetono. Guardo i miei pennicilli imperfetti  sono contenta di avere assaggiato quella fatica lontana e ringrazio l’immagine di quelle donne e di quelle madri nella terra.

*/?>

Di Federica Predoni

“Ma sono proprio io quella lì che vedo nel video?” , ho chiesto a @jepis appena mi ha mandato alcuni frame del montaggio.

Perchè, si sa, la prima cosa che una donna nota di sé quando è riflessa in una qualsiasi immagine è il proprio aspetto. Da qui, il mio immediato domandarmi se la sveglia delle 5 di mattina di quella giornata di vendemmia e riprese video avesse lasciato un qualche segno sul volto.

Poi mi ascolto, mi guardo meglio, mi riguardo e sì, quella lì sono io.

Bella o brutta, viso stanco o no, sono io. E sono nell’unico posto in cui ho imparato a vivere serenamente negli ultimi anni. L’unico posto che, fin da quando ci conosciamo, Pasquale ed io abbiamo costruito insieme, vendemmia dopo vendemmia.

Ho iniziato a scrivere l’articolo del blog Appunti in cantina di gennaio dal mio appartamento di Bologna, l’ho riletto e modificato in treno e l’ho riletto e definito a Ischia.

Faccio fatica a dire “a casa”, perché quando ho scelto di lasciare tutta la mia vita di Bologna per trasferirmi a Ischia e seguire Pasquale ero consapevole che da quel momento sarei appartenuta a due posti con identità ben diverse tra loro.

“Da Bologna a Ischia?!?”, mi chiedono ancora alcune persone con lo sguardo stupito di chi si domanda se sia facile o no lasciare una città come Bologna per trasferirsi su un’isola. E la curiosità diventa stupore quando scoprono che il mio lavoro e la mia vita nella mia città non avevano mai avuto a che fare con il mondo del vino… se non per l’aperitivo il venerdì sera con le amiche!

Ringrazio, quindi, la tecnologia che mi aiuta a lavorare nei miei spostamenti tra le mie due case, fisiche ed emotive, e ringrazio l’intuizione di @jepis che ha voluto intervistare me proprio lì, nella cantina di vigna Kalimera che è a tutt’oggi la mia “casa e bottega”.

Tutta la tecnologia del mondo e tutta questa connessione virtuale non avrebbero senso se non si impara a rimanere connessi al proprio cuore e all’immagine di sé, ecco perché mi serve guardarmi con gli occhi di qualcun altro per capire il percorso che ho fatto negli ultimi dieci anni.

Tra i tanti progetti di vigna Kalimera c’era, fin dall’inizio,  quello di riuscire a realizzare qualcosa che mi facesse sentire parte dell’azienda e del territorio di quest’isola, qualcosa che mi piacesse fare veramente e non fosse una “consolazione” per la  mia scelta.

Da qualche anno, tra la primavera e l’inizio di vendemmia, gestisco le visite e le degustazioni a vigna Kalimera, consapevole del fatto che il turismo che scopre oggi Ischia è sicuramente più informato e consapevole, rispetto al passato, nella propria scelta di legare una vacanza anche e, soprattutto, ad un’esperienza emotiva.

Il mondo del vino ha il potere di regalare questo agli appassionati, che non devono necessariamente essere esperti o addetti ai lavori.

Accogliere persone di tutto il mondo diventa, perciò,  una responsabilità nel trasmettere loro una sana immagine di Ischia ma senza perdermi il divertimento di scoprire le diverse storie e vite delle persone che, per qualche ora, incrociano la mia storia e la mia vita. Ecco, allora, che tutto quello che ho imparato in dodici anni di lavoro aeroportuale, costantemente a contatto con il pubblico, mi torna utile.

Solo della stagione scorsa, ricordo una carrellata di volti e racconti di chi è passato di qua come, ad esempio, una famiglia di origini indiane che vive in New Jersey.

Tutti belli: bella la madre e il padre dei bellissimi bambini che hanno passato  ore con Giacomo scambiandosi parole di due lingue reciprocamente sconosciute, uniti nel linguaggio comune dei bambini di tutto il mondo, il gioco.

Ancora, ricordo un uomo alto, robusto, pelle d’ebano e capelli rasta che dalla Papua Nuova Guinea si incontra una volta all’anno per viaggiare insieme con amici, tutti provenienti da posti diversi, accomunati dalla ricerca del buon cibo e dell’amore per il vino, anche loro al nostro tavolo.

“Anche io faccio vino”, mi dice con il suo largo sorriso.

“Quali sono le vostre uve?” è la mia domanda più immediata, non ci posso fare nulla, mi viene spontanea.

“Faccio con la nostra frutta tropicale. La fermentazione è fermentazione, anche se non è uva!”.

Ha ragione anche lui.

E, ancora, la donna che, nata e cresciuta sempre nello stesso quartiere di un paesino dell’Inghilterra, oggi in pensione, dedica il suo tempo libero a ricostruire la storia di quel quartiere attraverso le testimonianze e i ricordi del vicinato. Un vero e proprio albero genealogico di strade, vicoli e delle famiglie che ci hanno vissuto.

Per non perdere il passato, per non dimenticare chi siamo e da dove veniamo.

Sono impressionata da quanto questo umano istinto di conservazione sia comune in ognuno di noi.

Penso sia tutto questo confronto e contatto umano che mi ha aiutato, nel tempo, ad imparare a vivere bene in due posti così diversi come la mia città natale e questa isola, piena di contrasti, con le sue chiusure e ristrettezze per chi ci mette piede da fuori, è vero, ma ricca di bellezza, storia, genuinità e cuore.

Penso, anche, che continuare a sforzarsi di fare bene ciò che facciamo, così come siamo e con il nostro bagaglio di provenienza, sia l’unico strumento possibile per lasciare l’impronta del nostro fare nel posto in cui viviamo. Non importa per quanto.

Se mi si chiede, quindi, se attraverso vigna Kalimera, ho realizzato uno dei tanti progetti che le appartengono, la risposta è sì. Con la voglia di realizzarne tutti gli altri.

*/?>

Di Federica Predoni

Il concetto di passato può essere considerato da molti punti di vista: passato come qualcosa  da dimenticare, come rimpianto, come cosa finita, nella sua accezione negativa. Il passato come insegnamento, memoria, conservazione in quella positiva. Spesso, guardandosi indietro, volgiamo lo sguardo al tempo trascorso senza considerarlo come risorsa ancora viva da poter utilizzare, trasformandola a nostro vantaggio.

Il nostro concetto di viticoltura, perfettamente descritto da Rino in questo video, e applicato nelle nostre pratiche agricole cerca di avvicinarsi il più possibile a questo.

 

Aggiungere alla nostra mappa delle vigne un nuovo appezzamento entusiasma tutti noi. Sappiamo che la fatica è sempre tanta ma la consapevolezza di lavorare una terra ricca di storia ed identità ci permette di accettare la sfida, con piedi e le mani in vigna e lo sguardo al futuro.

Il vigneto di Rio si apre dopo una lunga camminata attraverso uno di quei sentieri nati per l’uomo e il somaro: stretto, scosceso, camminarlo ti porta alla riflessione sulla fatica umana che lo ha solcato per secoli.

Affacciato sul mare, ventilato, perfettamente soleggiato. La fatica per raggiungerlo è ricompensata da una viticoltura, come ha detto Rino, fatta di un delicato intervento umano. Lo stretto necessario, insomma.

Lavorare questi piccoli appezzamenti diventa, allora, testimonianza concreta che il nostro passato può continuare a vivere, conservando quei vitigni antichi con tecniche semplici.

“Ancora leghiamo con i salici” è, quindi, una vera e propria intenzione a preservare e conservare, non solo come pratica agricola. E’ la dimostrazione che l’uomo e la natura, che da sempre gli fornisce il cibo, possono convivere in un legame armonico.

Questa visione, proiettata al futuro e in una sua  più ampia condivisione possibile, può essere una causa per produrre benessere e un modello colturale in equilibrio con la popolazione che vive quel territorio e se ne prende cura.

Una visione utopistica, se guardiamo a come sta girando il mondo in termini di produzione di cibo, spreco alimentare e pratiche agricole che tendono a prosciugare il suolo, invece di rigenerarlo.

Sembra utopia ma, a noi, piace ancora sognare. E, ancora di più, piace tentare di essere parte integrante di un magnifico territorio e di lavorarlo attivamente, con rispetto e amore.

 

*/?>

di Federica Predoni

Della prima volta che Pasquale mi fece visitare l’antica cantina di vigna Kalimera, che da lì a qualche anno avremmo preso in gestione, ricordo l’espressione di affetto che gli leggevo mentre ripercorreva i momenti in cui, in quella cantina, ci veniva con suo padre da bambino. Cercava di tradurmi, più che trasmettermi, una lingua sconosciuta.

Per me, nata e cresciuta nella realtà cittadina di Bologna, era una nuova lingua non solo il dialetto che parlava ma l’idea che in quello spazio nascosto sotto un masso di tufo si fossero dipanate le vite faticose di famiglie e generazioni.

Immaginai, dai suoi ricordi, come si  potesse entrare dalla porticina di una di quelle vecchie botti di castagno per pulirle all’interno. Immaginai la fila delle botti più piccole sulla spiaggia di Sant’angelo, o dei Maronti, per essere lavate con acqua di mare.

Cosa sa doveva essere Ischia a quei tempi… una cartolina in bianco e nero…

Abbiamo chiesto a @Jepis di aiutarci a mettere in immagini un pò di noi e, in questo video, c’è Pasquale che ci accompagna in questo nuovo viaggio della nostra piccola azienda.

*/?>

Di Federica Predoni

Ogni volta che in azienda si parlava di come migliorare la nostra comunicazione aziendale era come essere tornati in classe alla lezione di matematica, al momento dell’interrogazione, con il Prof. che scorre l’indice sul registro chiedendo “Qualcuno si offre?”

Pasquale, che solo alla parola “social” gli si scatena l’orticaria,  abbandonava regolarmente la conversazione. Tra gli altri, chi fuggiva velocemente e chi si nascondeva a lavorare dietro all’imbottigliatrice.

Ci piaceva, tuttavia, l’idea di far uscire dalle porte della cantina un po’ del nostro lavoro quotidiano: mostrarlo, dargli senso, condividerlo.

Il gioco della bottiglia

E siccome di cantina e di vino vorremmo parlare, abbiamo girato l’interrogazione di matematica nel gioco della bottiglia, dove io timidamente ho alzato la mano in classe e, offrendomi volontaria, ho detto: “Ci provo, che sarà mai?”.

E, come accade, a volte, quando si prende una decisione di istinto, capita che le circostanze intorno a te si muovano nella giusta direzione,  é successo che, girando la bottiglia con la domanda “da dove si comincia?”, fatidico fu l’incontro con @Jepis  durante uno dei tanti laboratori organizzati da Slow Food, associazione con la quale collaboro e mi diverto da anni.

Così nasce il nostro progetto di comunicazione aziendale che vede coinvolti una nuova impronta al sito www.cenatiempovinidischia.it e la nascita di questi “Appunti in cantina” con i quali proviamo a trasmettere fuori dall’azienda cosa significa fare vino a Ischia. E, cosa significa viverci, su un’isola come Ischia.

federica predoni cenatiempo

Ci sembrava, quindi, adatto per la prima “puntata” cominciare da chi la bottiglia non la maneggia per gioco ma per riempirla, con tenacia e passione di quel lavoro che gli è stato tramandato.

Nato e cresciuto a Ischia, e nello specifico nella cantina del papà Francesco, Pasquale Cenatiempo ha scelto di continuare l’antichissima tradizione  dell’isola di fare vino, proiettandola in una visione di futuro.

È, la sua, una visione che guarda all’agricoltura e alla viticoltura sostenibile, con particolare attenzione alla cura del suolo, al territorio e ai suoi legami, alla voglia di far conoscere Ischia fuori dai confini di piccola isola.

Insieme a lui c’è sempre il valido e sapiente contributo di chi ha seguito questa avventura da molto prima di me, che scrivo ora.

Questo nuovo spazio nasce dalla voglia di raccontare chi siamo.

Giro la bottiglia, quindi, e… sotto a chi tocca!

*/?>